da:
ISHI UN UOMO TRA DUE MONDI, La storia dell’ultimo indiano Yahi, di
Theodora
Kroeber *,
Jaka Book, 1985, pag. 168-175
dalla
IV di copertina:
Nel
1849, anno della Corsa all’Oro, gli Yana della California
settentrionale erano più di duemila. Ventun anni più tardi, nel
1871, erano praticamente scomparsi. Ne rimaneva soltanto una
quindicina, della tribù Yahi, che dopo un tentativo di pace con
l’invasore sparì completamente per vivere una singolare esistenza
clandestina che durerà trentotto anni.
Il
10 novembre 1908 alcuni ingegneri, incaricati di studiare la
possibilità della costruzione di una diga alla confluenza di due
torrenti, scoprono per caso un villaggio indiano nascosto tra la
fittissima boscaglia californiana e mettono in fuga i suoi quattro
abitanti, gli ultimi Yahi sopravvissuti. Successivamente uno di loro,
Ishi, continuerà a vivere da solo nella clandestinità più
assoluta fino al 29 agosto 1911, giorno in cui, stremato e disperato,
si consegna alla “civiltà”.
Sarebbe
vissuto ancora cinque anni prima di morire, nel 1916, di tubercolosi.
Il
caso ha voluto che in quei cinque anni due antropologi
dell’Università di California, Kroeber e Waterman, abbiano potuto,
con molta intelligenza, discrezione, rispetto e amicizia, studiare
l’uomo che aveva fatto quel salto prodigioso dall’età della
pietra alla civiltà tecnologica occidentale.
Quest’opera,
la cui lettura è sconvolgente, è pervasa da una grande tristezza.
E’ la testimonianza della conquista, del razzismo, della furberia,
della crudeltà e delle occasioni mancate – tra cui quella di una
convivenza tra indiani e bianchi. Si tratta di un libro scritto con
molta intelligenza, competenza e tatto, un libro di coraggio, di
saggezza e forse di speranza.
E’
un libro pubblicato nel 1961 scritto dall’antropologa che ha
conosciuto e studiato, per cinque anni Ishi, morto nel 1916. Ne
riportiamo alcune pagine.
………….le
armi, i gesti e le tecniche di caccia di Ishi non avevano nulla in
comune con quelli del moderno cacciatore. Oggi l’uomo caccia per
puro divertimento e non ha un vero bisogno della preda; più di
questa gli interessa invece provare brevemente e intensamente la
soddisfazione di uccidere. Ishi cacciava per vivere, utilizzava ogni
parte dell’animale ucciso e viveva a stretto contatto con la fauna,
di cui aveva una profonda conoscenza. La mitologia degli Indiani
d’America vuole che gli uomini, prima di essere tali, siano stati
degli animali; in questo senso riconosce una continuità biologica
tra la vita animale e l’uomo e insieme impone un sistema di
credenze che impedisce di prendere la vita senza rispettarla.
L’arco
non è un’arma che si possa affidare al primo venuto, come è
invece il caso dei suoi moderni sostituti, il fucile e la pistola, e
anche l’arciere esperto conosce l’importanza della “tecnica”
e l’incidenza che questa ha sui risultati. C'è stato un periodo
nella storia in cui l’arco era l’arma della guerra e della caccia
in tutti i continenti e le isole abitate, con l’eccezione
dell’Australia e delle isole della Polinesia. Diversi sono stati i
materiali impiegati nella sua costruzione, le sue forme, il modo di
tenerlo e di scoccare la freccia, ma dovunque questa difficile arte è
stata tenuta in massimo conto, onorata e ricompensata. Sempre e
dovunque la fabbricazione e l’utilizzazione dell’arco sono state
circondate da rituali e tabù che vanno al di là della tecnica e
delle regole effettivamente necessarie.
Gli
Yahi non facevano eccezione. Al museo, i nuovi amici di Ishi
impararono da lui a lanciare la freccia, lo osservarono fabbricare
archi e frecce e cacciarono con lui. Ishi era un cacciatore
formidabile: cacciava sempre da vicino, adescava la preda attirandola
progressivamente con una ingegnosità e una pazienza infinite. Fu
come cacciatore che Ishi mostrò la sua abilità di artigiano e
artista. Al museo, cadendo a sua volta preda dell’ansia di
sperimentazione scientifica, fabbricò e mise alla prova archi
fabbricati con diversi tipi di legno; tuttavia il suo vero arco da
caccia era invariabilmente di ginepro di montagna. Sceglieva
anzitutto l’albero e successivamente il ramo da cui ottenere un
nuovo arco. Dopo questa scelta ben ponderata, il ramo veniva tagliato
e sgrossato. Ancora ben lontano dall’essere finito, l’arco
possedeva già un alto e un basso, e Ishi, posandolo, rispettava
queste parti e proprietà diverse: l’alto era la parte del ramo che
si era trovata più vicina al tronco, mentre il basso era il lato del
ramo rivolto verso l’esterno (qui, secondo me, c’è più di un
errore di traduzione n.d.r.)
Ishi
modellava l’arco a misura della persona che l’avrebbe usato:
doveva esserci una certa proporzione tra l’altezza dell’arciere e
la lunghezza dell’arma, e tra la grossezza della mano e lo spessore
del legno. La lunghezza dell’arco doveva essere uguale alla
distanza tra l’articolazione dell’anca destra e la punta del dito
medio della mano sinistra, misurata con la persona in posizione
eretta e con il braccio teso orizzontalmente in avanti. Nel caso di
Ishi, questa distanza era di un metro e venticinque. Larghezza e
spessore del legno dovevano essere maggiori ai due lati
dell’impugnatura: la larghezza dell’arco era di quattro dita per
armi potenti, e di tre dita per armi più leggere, destinate alla
piccola selvaggina.
Assistere
alla fabbricazione di un arco alla maniera di Ishi era fare un
viaggio indietro nel tempo fino al neolitico, un neolitico però
carico di toni yahi. Una volta sbozzato, il futuro arco veniva
riposto a stagionare in un luogo dal calore e dall’umidità
costanti. Per tutto questo tempo era mantenuto orizzontale.
Appoggiato a terra, portato o in posizione di tiro, la priorità
della parte alta dell’arco andava sempre rispettata, essendo la
garanzia che la freccia avrebbe colpito il segno. Per la definitiva
preparazione dell’arco si rendevano necessari tutti gli strumenti
di Ishi, coltelli e raschietti di selce e di ossidiana. La pulitura
definitiva si faceva con pietra arenaria. Gli archi di Ishi
presentano una elegante linea curva alle estremità, di una tale
simmetria che stupisce la semplicità del procedimento che permetteva
di ottenerla; lavorava ciascuna estremità piegandola avanti e
indietro sopra una pietra calda, finché il legno diventava cedevole;
poi la premeva contro il ginocchio piegato, protetto con una pelle di
cervo, e la teneva così premuta finché il legno tornava freddo. A
questo punto la curva era definitiva.
Per
rinforzare l’arco, Ishi si serviva dei lunghi tendini delle zampe
posteriori del cervo: li sfilacciava, li macerava, li masticava in un
processo lungo e faticoso. Quando i tendini erano diventati regolari
e sottili come delle strisce di pergamena, li incollava sulla parte
interna (forse esterna, n.d.r.) dell’arco, una striscia dopo
l’altra, per aumentare la potenza e l’elasticità dell’arma.
Quanto alla colla, la preparava facendo bollire della pelle di
salmone. Per la corda dell’arco Ishi utilizzava i tendini più
sottili delle zampe anteriori, che faceva passare tra i denti fino a
quando acquistavano la sottigliezza di un filo di seta. Dalle fibre
così ottenute fabbricava poi una corda.
Prima
di ricevere la corda, l’arco veniva accuratamente lasciato seccare
al sole per giorni e settimane, poi rifinito e levigato.
La
corda veniva legata prima all’estremità alta dell’arco. Ecco
come Pope descrisse la successiva operazione: “Seduto Ishi metteva
l’estremità alta dell’arco dietro il tallone sinistro, la
concavità dell’arco rivolta verso di lui; poggiava poi
l’impugnatura contro il ginocchio destro e teneva nella mano
sinistra la parte bassa dell’arco, ora rivolta all’insù. In
questa posizione piagava l’arco e legava la corda all’estremità”
(inferiore). Se l’esatto rapporto tra lunghezza, spessore e
rinforzo era stato osservato, l’arma tesa al massimo descriveva un
arco geometrico perfetto – l’ideale di Ishi – e sviluppava,
quando al corda era tirata di sessanta centimetri, una spinta di
venti chili.
Di
solito Ishi si accontentava di avvolgere il suo arco in un pezzo di
pelle, tuttavia riteneva che il miglior fodero fosse una coda di
puma. Quando non lo usava, aveva sempre cura di stenderlo
orizzontalmente, e di non lasciarlo mai in posizione verticale. In
piedi, infatti, avrebbe continuato a lavorare, a sudare e a
indebolirsi. Il modo di Ishi per verificare lo stato di un arco era
quello di pizzicare la corda con le dita: se l’arco era in buone
condizioni doveva rispondere con una nota alta e musicale. Una nota
sorda e senza vita era segno che l’arco non era più buono o che
era stato contaminato, forse dal tocco di una donna. Quando Ishi
aveva ottenuto dal suo arco una nota chiara e musicale, spesso lo
avvicinava alle labbra, e accarezzando la corda con le dita produceva
un suono triste e melodioso con cui accompagnava un antico racconto
yahi. Ishi amava il suo arco più di ogni altra cosa.
Per
la fabbricazione delle frecce, Ishi preferiva a ogni altro legno i
giovani e dritti steli del nocciolo. Come per l’arco, anche per le
frecce bisognava rispettare sempre la posizione. Era sua abitudine
fabbricare le frecce sempre in numero di cinque. Soltanto quando le
cinque frecce erano terminate e messe a stagionare si poteva
cominciare a lavorare a una nuova serie di cinque. La bacchetta di
nocciolo veniva subito liberata della corteccia, poi, per togliere
ogni irregolarità, Ishi la faceva rotolare avanti e indietro su
delle pietre calde; successivamente la levigava accuratamente con
dell’arenaria e le dava la definitiva lucidatura sfregandola contro
una gamba, una tecnica, questa, che ricorda la lucidatura a meno
degli ebanisti, in cui l’umore che trasuda dalla pelle penetra nel
legno nel corso della frizione.
Anche
le frecce erano fatte su misura: la loro lunghezza doveva essere
uguale alla distanza che separa la base dello sterno dalla punta
dell’indice sinistro quando il braccio è in posizione di tiro,
parallelo alla freccia – settantacinque centimetri per Ishi.
A
volte, ma non sempre, Ishi utilizzava per la parte anteriore della
freccia un legno più pesante, della lunghezza di una ventina di
centimetri. Per unire insieme le due parti di questo tipo do freccia
si serviva di un pezzo d’osso appuntito che metteva per terra, la
punta in alto, tenendolo fermo con i piedi. Prendeva poi l’asta
principale della freccia e, tenendola verticalmente, la faceva
ruotare con le palme delle mani sopra l’osso acuminato finché non
riusciva a praticare un buco di tre o quattro centimetri di
profondità. A questo punto prendeva la seconda asta e ne affilava
una estremità, fino a ricavare un perno che infilava nel buco
dell’asta principale, fissandolo con resina o colla.
Ishi
decorava abitualmente le sue frecce usando un motivo circolare
bicolore, ma il suo interesse era più rivolto all’impennaggio che
alla decorazione. Le penne preferite erano quelle dell’aquila, ma
adoperava abitualmente anche quelle di poiana, di ghiandaia azzurra e
di altri uccelli. Montava le penne in numero di tre, e tutte dovevano
provenire dalla stessa ala, secondo un’usanza osservata dovunque
dai buoni arcieri. L’angolo delle penne con l’asta è
fondamentale per la traiettoria della freccia. Ishi montava le penne
ad angolo acuto rispetto al senso longitudinale della freccia, non le
fissava mai esattamente perpendicolari. Questo metodo, che è il più
diffuso, favorisce la precisione di tiro dalla breve distanza,
permette alla freccia di ruotare meglio e le assicura una migliore
penetrazione, sebbene, ma questo a Ishi interessava meno, la velocità
e la distanza ne risultino sacrificate.
La
faretra usata da Ishi, e che gli fu portata via a Wowunupo il giorno
in cui il villaggio fu scoperto, è ora visibile nel museo. Ricavata
dalla pelle intera di una lontra, con il pelo all’esterno, è
abbastanza grande da ospitare l’arco insieme alle frecce. Ishi se
la gettava su una spalla e la lasciava penzolare dietro la schiena.
Con
una semplice striscia di pelle legata intorno alla vita, l’arco e
le frecce nella faretra sulla schiena, Ishi lasciava l’accampamento
o il villaggio e andava a caccia. Si muoveva tra la boscaglia senza
far rumore, finché raggiungeva una radura che gli sembrava adatta
allo scopo. Qui si fermava, toglieva l’arco dalla faretra e si
assicurava che la corda fosse ben tesa e annodata al legno, perché
l’arco doveva essere sempre pronto. Prendeva poi alcune frecce e le
metteva sotto l’ascella destra, in modo che fossero a portata di
mano ma non lo ostacolassero nel tiro. Se udiva il rumore o sentiva
l’odore di qualche animale, si nascondeva al riparo di una roccia
o di un arbusto. Se necessario, sapeva attendere intere ore: non
lasciava mai una preda individuata o sospettata per un’altra,
magari più grossa e sicura. Da buon cacciatore, doveva riuscire a
individuare la preda prima che questa si accorgesse di lui, e i suoi
sensi, vista, udito e odorato, contribuivano tutti a dargli questo
iniziale vantaggio.
Avvertita
la presenza di un coniglio, se ne stava nascosto, e con due dita
premute contro le labbra emetteva degli schiocchi leggeri, simili a
dei baci: il delicato suono lamentoso del coniglio in difficoltà.
Inevitabilmente qualche coniglio si avvicinava, rispondendo al
richiamo, ma il cacciatore faceva bene a prepararsi a incontri più
pericolosi. Talvolta all’invitante richiamo rispondevano un gatto
selvatico, un puma, un coyote o un orso. Il repertorio di Ishi
comprendeva vari richiami, quello della quaglia e dello scoiattolo
grigio, il grido dell’oca selvatica e quello di molti altri uccelli
e animali. A volte colpiva prede piccole da una distanza molto
ravvicinata – un coniglio da quattro i cinque metri – ma sapeva
essere preciso anche su distanze maggiori, anche di quaranta metri;
tirava agli uccelli on volo e agli animali in fuga, tuttavia
preferiva il colpo a breve distanza e quando l’animale era
immobile. Era sempre molto attento a restare sottovento rispetto alla
preda, e data la silenziosità dell’arco, gli animali non si
mettevano in allarme nemmeno quando una freccia non li mancava di
poco. Con le sue imitazioni dei loro versi li attirava verso di sé,
suscitando il loro interesse o la loro curiosità, facendone in
questo modo dei comodi bersagli. La curiosità degli uccelli e dei
mammiferi, che i cacciatori primitivi sanno sfruttare a loro
vantaggio, non può essere di aiuto al cacciatore moderno armato di
fucile: lo sparo, infatti, incute negli animali un terrore che
paralizza ogni altra reazione o emozione. Ishi, e come lui tutti gli
arcieri solitari, non introduceva nessun elemento estraneo
nell’ambiente naturale, essendo un possibile nemico tra gli altri,
come la moffetta è nemica della quaglia, il coyote del coniglio e il
puma del cervo.
Ishi
maneggiava sempre il suo arco con rispetto e solennità, e non
cacciava mai alla leggera; per la caccia al cervo aveva poi un
preciso rituale. Durante il giorno e la notte precedenti la caccia al
cervo non mangiava pesce e non prendeva tabacco; quando era possibile
estendeva il periodo di astensione a tre giorni e tre notti.
Naturalmente in un villaggio yahi si sarebbe astenuto anche dai
rapporti sessuali.
Il
mattino del giorno fissato per la caccia si lavava tutto, nella sua
vecchia casa avrebbe fatto un bagno di sudore, si puliva con cura la
bocca e si metteva in cammino senza mangiare: avrebbe mangiato sola
alla fine della giornata. Lungo le braccia e le gambe incideva con
una scheggia affilata di ossidiana delle nuove, leggere
scarificazioni per accrescere la forza degli arti. In tutto il
cerimoniale di preparazione distinguiamo due motivi: quello pratico,
volto a ridurre al minimo l’odore dell’uomo in modo da non
insospettire la preda, e quello magico-morale, che cerca di
incanalare la libido e di rivolgerla interamente alla caccia.
Solo
o in compagnia, Ishi preferiva la tattica dell’adescamento e
dell’imboscata a quella dell'inseguimento. Accovacciato dietro un
riparo artificiale di rocce, dietro o in mezzo a un cespuglio vicino
al luogo dove aveva intuito o sentito la presenza del cervo,
aspettava. Aspirando aria tra una foglia di alloro piegata in due
tra le labbra, poteva imitare il lamento di un cerbiatto ed essere
sicuro di attirare in questo modo qualche cerva preoccupata per il
suo piccolo. Oppure poteva coprirsi il capo con una testa di cervo
impagliata, con dei rami a suggerire le corna. Muovendo la testa al
di sopra dello schermo di pietre o di arbusti, piegandola di lato,
simulava il quieto brucare di un cervo. Era certo, in questo modo, di
attirare a pochi passi un altro cervo, o una cerva. Forse il nuovo
venuto cadeva nell’inganno ritenendo di trovarsi di fronte a un
animale della sua stessa specie, o forse la sua curiosità lo
spingeva verso quella nuova, strana creatura della foresta. In ogni
caso si mostrava interessato e incuriosito, cauto ma mai impaurito.
Ishi aveva tutto l’agio di tirare, di mancare anche un colpo o due
prima che il cervo si allarmasse.
Un
uomo solo armato semplicemente di arco e frecce non va a caccia con
l’idea di stanare un orso grizzly. Gli Yahi cacciavano il grizzly
solo quando quest’ultimo era in letargo, e in numero sufficiente a
circondarlo di arbusti infuocati prima del suo totale risveglio.
Anche in questo caso, soltanto un colpo molto ravvicinato poteva
essere mortale. Di preferenza miravano alla bocca aperta, lanciando
frecce dalla punta piccola e molto aguzza, adatte a provocare
emorragia. Se l’orso attaccava, l’uomo cercava di difendersi
brandendo un fascio di sterpi infuocati, mentre i compagni
stringevano il cerchio per meglio scoccare le loro frecce. Dalle
descrizioni dei cacciatori, bianchi o yahi, sembra proprio che la
caccia al grizzly somigli molto a una corrida, nel senso che la morte
sopraggiunge dopo che l’orso è stato indebolito dalla fatica e
dalla perdita di sangue. Sappiamo che Ishi uccise da solo almeno un
orso bruno – chiamato anche orso nero nell’Ovest. Non ne parlò
mai diffusamente, ma è chiaro che era stato caricato dall’orso.
Per fortuna, prima che l’animale gli fosse addosso, Ischi ebbe modo
di tirare una freccia e lo colpì nella regione del cuore. Per il
colpo di grazia usò una corta lancia dalla punta di ossidiana, che
di solito teneva a portata di mano appesa alla cintura o infilata
nella fascia che gli copriva la vita. La pelle dell’orso ucciso da
Ishi contribuì a tenere lui e i suoi compagni al caldo a Wowunupo,
prima del saccheggio del villaggio; curiosamente, quella stessa pelle
fu donata al museo qualche anno dopo.
Per
l’appassionato di tiro con l’arco, una delle cose più
interessanti di Ishi era la sua tecnica di tiro. Oggi un buon arciere
conosce le tecniche classiche, i diversi tipi di arco e i modi di
scoccare la freccia che si sono usati nel corso della storia. Questi
dettagli tecnici richiedono una terminologia particolare e ostica per
chi non è del mestiere, e in questo caso una fotografia vale più di
molte parole. Comunque, una delle principali caratteristiche della
tecnica di Ishi era che preferiva tirare da posizione accovacciata.
Era un’usanza tribale direttamente legata alla pratica di caccia
degli Yana: un cacciatore accovacciato, nascosto dietro un riparo
spesso insufficiente, aveva poche probabilità di fare centro se,
dopo aver adescato la preda, doveva alzarsi in piedi per tirare. La
posizione accovacciata non era un ostacolo quando si usava un arco
non più grande di quello di Ishi, e quando lo si teneva come faceva
lui, diagonale rispetto al corpo, la parte alta piegata verso
sinistra, la corda tirata all’altezza della guancia. Un’altra,
insolita caratteristica di Ishi era che, nell’istante in cui la
freccia veniva scoccata, le dita della mano sinistra allentavano la
stretta e permettevano all’arco di ruotare su se stesso all’interno
della mano. Questa tecnica richiede una presa ferma ma nello stesso
tempo leggera, in modo che l’arco non scappi di mano, ma che nulla
impedisca il suo movimento. Questo movimento può essere paragonato
al “follow-through” dove, colpita la palla, il tennista
perfeziona il colpo con un movimento largo e leggero, oppure al
completamento della traiettoria ad arco compiuta da una mazza da golf
dopo il colpo, mentre il golfista ruota sul piede d’appoggio.
Anche
la tecnica con cui Ishi tendeva la corda e scoccava la freccia aveva
una curiosa particolarità: era diversa da tutte le altre tecniche di
tiro, e a tutt’oggi rimane unica nella letteratura specialistica.
Si trattava apparentemente di una variante yahi, o meglio yana, della
tecnica di tiro mongolica o asiatica, una delle cinque grandi
tecniche conosciute, ma che non era mai stata segnalata tra gli
Indiani d’America. La tecnica mongolica si usa generalmente con
l’arco composito e presuppone l’uso di un anello per il pollice;
infatti è il pollice piegato che tende la corda, e le altre dita
servono solo a tenere e guidare la freccia. Ishi non usava anello né
altra protezione per il pollice, e il suo arco non era composito ma
semplice.
Dopo
una prolungata esercitazione al tiro al bersaglio, il pollice si
gonfiava e gli faceva male, ma questo non accadeva mai durante la
caccia. Ishi tendeva l’arco con il pollice destro piegato come
nella classica tecnica mongolica; la variazione yana stava nella
posizione di un dito: la punta del medio veniva appoggiata contro
l’unghia del pollice in modo da rafforzarne la presa.
A
questo punto si pone il problema del perché gli Yana usassero il
loro arco semplice con una tecnica diversa dagli altri arcieri e che,
caso unico in America, era una variante della tecnica mongolica. Non
conosciamo la risposta, possiamo solo ipotizzare che lasciando l’Asia
nel corso di una lunga serie di migrazioni ormai dimenticate, gli
antenati di Ishi portarono con sé l’arco semplice che avevano
imparato a tendere con il pollice, in un’epoca in cui l’arco
composito e l’anello per la protezione del pollice non erano ancora
stati inventati. Questa ricostruzione storica ci riporta alla
preistoria, e presuppone una lingua di terra tra l’Asia e
l’America. E’ soltanto un’ipotesi e nulla più, ma conferma
quello che già sappiamo degli Yana e che anche una analisi della
lingua di Ishi lascia intendere: questo popolo aveva delle radici
molto antiche.
*
Theodora Kroeber è la moglie del celebre antropologo statunitense
Alfred, autore fra le altre opere del Manuale
degli indiani di California
(1925). Quando Ishi venne affidato ad Alfred Kroeber e a T. Waterman,
del Museo di Antropologia dell’Università di California, ella si
trovò a seguirne e conoscerne da vicino, attraverso il racconto del
marito, la storia. Questo libro, per la cui stesura sono stati
ampiamente utilizzati documenti e fonti in possesso dell’Università,
assolve nelle intenzioni dell’autrice e dei membri del dipartimento
di antropologia che l’incoraggiarono a sciverlo, al compito di
fissare la memoria di una vita grande e tragica.
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