sabato 29 ottobre 2016

ISHI, IL SUO ARCO, LA CACCIA

da: ISHI UN UOMO TRA DUE MONDI, La storia dell’ultimo indiano Yahi, di Theodora Kroeber *, Jaka Book, 1985, pag. 168-175


dalla IV di copertina:
Nel 1849, anno della Corsa all’Oro, gli Yana della California settentrionale erano più di duemila. Ventun anni più tardi, nel 1871, erano praticamente scomparsi. Ne rimaneva soltanto una quindicina, della tribù Yahi, che dopo un tentativo di pace con l’invasore sparì completamente per vivere una singolare esistenza clandestina che durerà trentotto anni.
Il 10 novembre 1908 alcuni ingegneri, incaricati di studiare la possibilità della costruzione di una diga alla confluenza di due torrenti, scoprono per caso un villaggio indiano nascosto tra la fittissima boscaglia californiana e mettono in fuga i suoi quattro abitanti, gli ultimi Yahi sopravvissuti. Successivamente uno di loro, Ishi, continuerà a vivere da solo nella clandestinità più assoluta fino al 29 agosto 1911, giorno in cui, stremato e disperato, si consegna alla “civiltà”.
Sarebbe vissuto ancora cinque anni prima di morire, nel 1916, di tubercolosi.
Il caso ha voluto che in quei cinque anni due antropologi dell’Università di California, Kroeber e Waterman, abbiano potuto, con molta intelligenza, discrezione, rispetto e amicizia, studiare l’uomo che aveva fatto quel salto prodigioso dall’età della pietra alla civiltà tecnologica occidentale.
Quest’opera, la cui lettura è sconvolgente, è pervasa da una grande tristezza. E’ la testimonianza della conquista, del razzismo, della furberia, della crudeltà e delle occasioni mancate – tra cui quella di una convivenza tra indiani e bianchi. Si tratta di un libro scritto con molta intelligenza, competenza e tatto, un libro di coraggio, di saggezza e forse di speranza.


E’ un libro pubblicato nel 1961 scritto dall’antropologa che ha conosciuto e studiato, per cinque anni Ishi, morto nel 1916. Ne riportiamo alcune pagine.


………….le armi, i gesti e le tecniche di caccia di Ishi non avevano nulla in comune con quelli del moderno cacciatore. Oggi l’uomo caccia per puro divertimento e non ha un vero bisogno della preda; più di questa gli interessa invece provare brevemente e intensamente la soddisfazione di uccidere. Ishi cacciava per vivere, utilizzava ogni parte dell’animale ucciso e viveva a stretto contatto con la fauna, di cui aveva una profonda conoscenza. La mitologia degli Indiani d’America vuole che gli uomini, prima di essere tali, siano stati degli animali; in questo senso riconosce una continuità biologica tra la vita animale e l’uomo e insieme impone un sistema di credenze che impedisce di prendere la vita senza rispettarla.
L’arco non è un’arma che si possa affidare al primo venuto, come è invece il caso dei suoi moderni sostituti, il fucile e la pistola, e anche l’arciere esperto conosce l’importanza della “tecnica” e l’incidenza che questa ha sui risultati. C'è stato un periodo nella storia in cui l’arco era l’arma della guerra e della caccia in tutti i continenti e le isole abitate, con l’eccezione dell’Australia e delle isole della Polinesia. Diversi sono stati i materiali impiegati nella sua costruzione, le sue forme, il modo di tenerlo e di scoccare la freccia, ma dovunque questa difficile arte è stata tenuta in massimo conto, onorata e ricompensata. Sempre e dovunque la fabbricazione e l’utilizzazione dell’arco sono state circondate da rituali e tabù che vanno al di là della tecnica e delle regole effettivamente necessarie.
Gli Yahi non facevano eccezione. Al museo, i nuovi amici di Ishi impararono da lui a lanciare la freccia, lo osservarono fabbricare archi e frecce e cacciarono con lui. Ishi era un cacciatore formidabile: cacciava sempre da vicino, adescava la preda attirandola progressivamente con una ingegnosità e una pazienza infinite. Fu come cacciatore che Ishi mostrò la sua abilità di artigiano e artista. Al museo, cadendo a sua volta preda dell’ansia di sperimentazione scientifica, fabbricò e mise alla prova archi fabbricati con diversi tipi di legno; tuttavia il suo vero arco da caccia era invariabilmente di ginepro di montagna. Sceglieva anzitutto l’albero e successivamente il ramo da cui ottenere un nuovo arco. Dopo questa scelta ben ponderata, il ramo veniva tagliato e sgrossato. Ancora ben lontano dall’essere finito, l’arco possedeva già un alto e un basso, e Ishi, posandolo, rispettava queste parti e proprietà diverse: l’alto era la parte del ramo che si era trovata più vicina al tronco, mentre il basso era il lato del ramo rivolto verso l’esterno (qui, secondo me, c’è più di un errore di traduzione n.d.r.)
Ishi modellava l’arco a misura della persona che l’avrebbe usato: doveva esserci una certa proporzione tra l’altezza dell’arciere e la lunghezza dell’arma, e tra la grossezza della mano e lo spessore del legno. La lunghezza dell’arco doveva essere uguale alla distanza tra l’articolazione dell’anca destra e la punta del dito medio della mano sinistra, misurata con la persona in posizione eretta e con il braccio teso orizzontalmente in avanti. Nel caso di Ishi, questa distanza era di un metro e venticinque. Larghezza e spessore del legno dovevano essere maggiori ai due lati dell’impugnatura: la larghezza dell’arco era di quattro dita per armi potenti, e di tre dita per armi più leggere, destinate alla piccola selvaggina.
Assistere alla fabbricazione di un arco alla maniera di Ishi era fare un viaggio indietro nel tempo fino al neolitico, un neolitico però carico di toni yahi. Una volta sbozzato, il futuro arco veniva riposto a stagionare in un luogo dal calore e dall’umidità costanti. Per tutto questo tempo era mantenuto orizzontale. Appoggiato a terra, portato o in posizione di tiro, la priorità della parte alta dell’arco andava sempre rispettata, essendo la garanzia che la freccia avrebbe colpito il segno. Per la definitiva preparazione dell’arco si rendevano necessari tutti gli strumenti di Ishi, coltelli e raschietti di selce e di ossidiana. La pulitura definitiva si faceva con pietra arenaria. Gli archi di Ishi presentano una elegante linea curva alle estremità, di una tale simmetria che stupisce la semplicità del procedimento che permetteva di ottenerla; lavorava ciascuna estremità piegandola avanti e indietro sopra una pietra calda, finché il legno diventava cedevole; poi la premeva contro il ginocchio piegato, protetto con una pelle di cervo, e la teneva così premuta finché il legno tornava freddo. A questo punto la curva era definitiva.
Per rinforzare l’arco, Ishi si serviva dei lunghi tendini delle zampe posteriori del cervo: li sfilacciava, li macerava, li masticava in un processo lungo e faticoso. Quando i tendini erano diventati regolari e sottili come delle strisce di pergamena, li incollava sulla parte interna (forse esterna, n.d.r.) dell’arco, una striscia dopo l’altra, per aumentare la potenza e l’elasticità dell’arma. Quanto alla colla, la preparava facendo bollire della pelle di salmone. Per la corda dell’arco Ishi utilizzava i tendini più sottili delle zampe anteriori, che faceva passare tra i denti fino a quando acquistavano la sottigliezza di un filo di seta. Dalle fibre così ottenute fabbricava poi una corda.
Prima di ricevere la corda, l’arco veniva accuratamente lasciato seccare al sole per giorni e settimane, poi rifinito e levigato.
La corda veniva legata prima all’estremità alta dell’arco. Ecco come Pope descrisse la successiva operazione: “Seduto Ishi metteva l’estremità alta dell’arco dietro il tallone sinistro, la concavità dell’arco rivolta verso di lui; poggiava poi l’impugnatura contro il ginocchio destro e teneva nella mano sinistra la parte bassa dell’arco, ora rivolta all’insù. In questa posizione piagava l’arco e legava la corda all’estremità” (inferiore). Se l’esatto rapporto tra lunghezza, spessore e rinforzo era stato osservato, l’arma tesa al massimo descriveva un arco geometrico perfetto – l’ideale di Ishi – e sviluppava, quando al corda era tirata di sessanta centimetri, una spinta di venti chili.
Di solito Ishi si accontentava di avvolgere il suo arco in un pezzo di pelle, tuttavia riteneva che il miglior fodero fosse una coda di puma. Quando non lo usava, aveva sempre cura di stenderlo orizzontalmente, e di non lasciarlo mai in posizione verticale. In piedi, infatti, avrebbe continuato a lavorare, a sudare e a indebolirsi. Il modo di Ishi per verificare lo stato di un arco era quello di pizzicare la corda con le dita: se l’arco era in buone condizioni doveva rispondere con una nota alta e musicale. Una nota sorda e senza vita era segno che l’arco non era più buono o che era stato contaminato, forse dal tocco di una donna. Quando Ishi aveva ottenuto dal suo arco una nota chiara e musicale, spesso lo avvicinava alle labbra, e accarezzando la corda con le dita produceva un suono triste e melodioso con cui accompagnava un antico racconto yahi. Ishi amava il suo arco più di ogni altra cosa.
Per la fabbricazione delle frecce, Ishi preferiva a ogni altro legno i giovani e dritti steli del nocciolo. Come per l’arco, anche per le frecce bisognava rispettare sempre la posizione. Era sua abitudine fabbricare le frecce sempre in numero di cinque. Soltanto quando le cinque frecce erano terminate e messe a stagionare si poteva cominciare a lavorare a una nuova serie di cinque. La bacchetta di nocciolo veniva subito liberata della corteccia, poi, per togliere ogni irregolarità, Ishi la faceva rotolare avanti e indietro su delle pietre calde; successivamente la levigava accuratamente con dell’arenaria e le dava la definitiva lucidatura sfregandola contro una gamba, una tecnica, questa, che ricorda la lucidatura a meno degli ebanisti, in cui l’umore che trasuda dalla pelle penetra nel legno nel corso della frizione.
Anche le frecce erano fatte su misura: la loro lunghezza doveva essere uguale alla distanza che separa la base dello sterno dalla punta dell’indice sinistro quando il braccio è in posizione di tiro, parallelo alla freccia – settantacinque centimetri per Ishi.
A volte, ma non sempre, Ishi utilizzava per la parte anteriore della freccia un legno più pesante, della lunghezza di una ventina di centimetri. Per unire insieme le due parti di questo tipo do freccia si serviva di un pezzo d’osso appuntito che metteva per terra, la punta in alto, tenendolo fermo con i piedi. Prendeva poi l’asta principale della freccia e, tenendola verticalmente, la faceva ruotare con le palme delle mani sopra l’osso acuminato finché non riusciva a praticare un buco di tre o quattro centimetri di profondità. A questo punto prendeva la seconda asta e ne affilava una estremità, fino a ricavare un perno che infilava nel buco dell’asta principale, fissandolo con resina o colla.
Ishi decorava abitualmente le sue frecce usando un motivo circolare bicolore, ma il suo interesse era più rivolto all’impennaggio che alla decorazione. Le penne preferite erano quelle dell’aquila, ma adoperava abitualmente anche quelle di poiana, di ghiandaia azzurra e di altri uccelli. Montava le penne in numero di tre, e tutte dovevano provenire dalla stessa ala, secondo un’usanza osservata dovunque dai buoni arcieri. L’angolo delle penne con l’asta è fondamentale per la traiettoria della freccia. Ishi montava le penne ad angolo acuto rispetto al senso longitudinale della freccia, non le fissava mai esattamente perpendicolari. Questo metodo, che è il più diffuso, favorisce la precisione di tiro dalla breve distanza, permette alla freccia di ruotare meglio e le assicura una migliore penetrazione, sebbene, ma questo a Ishi interessava meno, la velocità e la distanza ne risultino sacrificate.
La faretra usata da Ishi, e che gli fu portata via a Wowunupo il giorno in cui il villaggio fu scoperto, è ora visibile nel museo. Ricavata dalla pelle intera di una lontra, con il pelo all’esterno, è abbastanza grande da ospitare l’arco insieme alle frecce. Ishi se la gettava su una spalla e la lasciava penzolare dietro la schiena.
Con una semplice striscia di pelle legata intorno alla vita, l’arco e le frecce nella faretra sulla schiena, Ishi lasciava l’accampamento o il villaggio e andava a caccia. Si muoveva tra la boscaglia senza far rumore, finché raggiungeva una radura che gli sembrava adatta allo scopo. Qui si fermava, toglieva l’arco dalla faretra e si assicurava che la corda fosse ben tesa e annodata al legno, perché l’arco doveva essere sempre pronto. Prendeva poi alcune frecce e le metteva sotto l’ascella destra, in modo che fossero a portata di mano ma non lo ostacolassero nel tiro. Se udiva il rumore o sentiva l’odore di qualche animale, si nascondeva al riparo di una roccia o di un arbusto. Se necessario, sapeva attendere intere ore: non lasciava mai una preda individuata o sospettata per un’altra, magari più grossa e sicura. Da buon cacciatore, doveva riuscire a individuare la preda prima che questa si accorgesse di lui, e i suoi sensi, vista, udito e odorato, contribuivano tutti a dargli questo iniziale vantaggio.
Avvertita la presenza di un coniglio, se ne stava nascosto, e con due dita premute contro le labbra emetteva degli schiocchi leggeri, simili a dei baci: il delicato suono lamentoso del coniglio in difficoltà. Inevitabilmente qualche coniglio si avvicinava, rispondendo al richiamo, ma il cacciatore faceva bene a prepararsi a incontri più pericolosi. Talvolta all’invitante richiamo rispondevano un gatto selvatico, un puma, un coyote o un orso. Il repertorio di Ishi comprendeva vari richiami, quello della quaglia e dello scoiattolo grigio, il grido dell’oca selvatica e quello di molti altri uccelli e animali. A volte colpiva prede piccole da una distanza molto ravvicinata – un coniglio da quattro i cinque metri – ma sapeva essere preciso anche su distanze maggiori, anche di quaranta metri; tirava agli uccelli on volo e agli animali in fuga, tuttavia preferiva il colpo a breve distanza e quando l’animale era immobile. Era sempre molto attento a restare sottovento rispetto alla preda, e data la silenziosità dell’arco, gli animali non si mettevano in allarme nemmeno quando una freccia non li mancava di poco. Con le sue imitazioni dei loro versi li attirava verso di sé, suscitando il loro interesse o la loro curiosità, facendone in questo modo dei comodi bersagli. La curiosità degli uccelli e dei mammiferi, che i cacciatori primitivi sanno sfruttare a loro vantaggio, non può essere di aiuto al cacciatore moderno armato di fucile: lo sparo, infatti, incute negli animali un terrore che paralizza ogni altra reazione o emozione. Ishi, e come lui tutti gli arcieri solitari, non introduceva nessun elemento estraneo nell’ambiente naturale, essendo un possibile nemico tra gli altri, come la moffetta è nemica della quaglia, il coyote del coniglio e il puma del cervo.
Ishi maneggiava sempre il suo arco con rispetto e solennità, e non cacciava mai alla leggera; per la caccia al cervo aveva poi un preciso rituale. Durante il giorno e la notte precedenti la caccia al cervo non mangiava pesce e non prendeva tabacco; quando era possibile estendeva il periodo di astensione a tre giorni e tre notti. Naturalmente in un villaggio yahi si sarebbe astenuto anche dai rapporti sessuali.
Il mattino del giorno fissato per la caccia si lavava tutto, nella sua vecchia casa avrebbe fatto un bagno di sudore, si puliva con cura la bocca e si metteva in cammino senza mangiare: avrebbe mangiato sola alla fine della giornata. Lungo le braccia e le gambe incideva con una scheggia affilata di ossidiana delle nuove, leggere scarificazioni per accrescere la forza degli arti. In tutto il cerimoniale di preparazione distinguiamo due motivi: quello pratico, volto a ridurre al minimo l’odore dell’uomo in modo da non insospettire la preda, e quello magico-morale, che cerca di incanalare la libido e di rivolgerla interamente alla caccia.
Solo o in compagnia, Ishi preferiva la tattica dell’adescamento e dell’imboscata a quella dell'inseguimento. Accovacciato dietro un riparo artificiale di rocce, dietro o in mezzo a un cespuglio vicino al luogo dove aveva intuito o sentito la presenza del cervo, aspettava. Aspirando aria tra una foglia di alloro piegata in due tra le labbra, poteva imitare il lamento di un cerbiatto ed essere sicuro di attirare in questo modo qualche cerva preoccupata per il suo piccolo. Oppure poteva coprirsi il capo con una testa di cervo impagliata, con dei rami a suggerire le corna. Muovendo la testa al di sopra dello schermo di pietre o di arbusti, piegandola di lato, simulava il quieto brucare di un cervo. Era certo, in questo modo, di attirare a pochi passi un altro cervo, o una cerva. Forse il nuovo venuto cadeva nell’inganno ritenendo di trovarsi di fronte a un animale della sua stessa specie, o forse la sua curiosità lo spingeva verso quella nuova, strana creatura della foresta. In ogni caso si mostrava interessato e incuriosito, cauto ma mai impaurito. Ishi aveva tutto l’agio di tirare, di mancare anche un colpo o due prima che il cervo si allarmasse.
Un uomo solo armato semplicemente di arco e frecce non va a caccia con l’idea di stanare un orso grizzly. Gli Yahi cacciavano il grizzly solo quando quest’ultimo era in letargo, e in numero sufficiente a circondarlo di arbusti infuocati prima del suo totale risveglio. Anche in questo caso, soltanto un colpo molto ravvicinato poteva essere mortale. Di preferenza miravano alla bocca aperta, lanciando frecce dalla punta piccola e molto aguzza, adatte a provocare emorragia. Se l’orso attaccava, l’uomo cercava di difendersi brandendo un fascio di sterpi infuocati, mentre i compagni stringevano il cerchio per meglio scoccare le loro frecce. Dalle descrizioni dei cacciatori, bianchi o yahi, sembra proprio che la caccia al grizzly somigli molto a una corrida, nel senso che la morte sopraggiunge dopo che l’orso è stato indebolito dalla fatica e dalla perdita di sangue. Sappiamo che Ishi uccise da solo almeno un orso bruno – chiamato anche orso nero nell’Ovest. Non ne parlò mai diffusamente, ma è chiaro che era stato caricato dall’orso. Per fortuna, prima che l’animale gli fosse addosso, Ischi ebbe modo di tirare una freccia e lo colpì nella regione del cuore. Per il colpo di grazia usò una corta lancia dalla punta di ossidiana, che di solito teneva a portata di mano appesa alla cintura o infilata nella fascia che gli copriva la vita. La pelle dell’orso ucciso da Ishi contribuì a tenere lui e i suoi compagni al caldo a Wowunupo, prima del saccheggio del villaggio; curiosamente, quella stessa pelle fu donata al museo qualche anno dopo.
Per l’appassionato di tiro con l’arco, una delle cose più interessanti di Ishi era la sua tecnica di tiro. Oggi un buon arciere conosce le tecniche classiche, i diversi tipi di arco e i modi di scoccare la freccia che si sono usati nel corso della storia. Questi dettagli tecnici richiedono una terminologia particolare e ostica per chi non è del mestiere, e in questo caso una fotografia vale più di molte parole. Comunque, una delle principali caratteristiche della tecnica di Ishi era che preferiva tirare da posizione accovacciata. Era un’usanza tribale direttamente legata alla pratica di caccia degli Yana: un cacciatore accovacciato, nascosto dietro un riparo spesso insufficiente, aveva poche probabilità di fare centro se, dopo aver adescato la preda, doveva alzarsi in piedi per tirare. La posizione accovacciata non era un ostacolo quando si usava un arco non più grande di quello di Ishi, e quando lo si teneva come faceva lui, diagonale rispetto al corpo, la parte alta piegata verso sinistra, la corda tirata all’altezza della guancia. Un’altra, insolita caratteristica di Ishi era che, nell’istante in cui la freccia veniva scoccata, le dita della mano sinistra allentavano la stretta e permettevano all’arco di ruotare su se stesso all’interno della mano. Questa tecnica richiede una presa ferma ma nello stesso tempo leggera, in modo che l’arco non scappi di mano, ma che nulla impedisca il suo movimento. Questo movimento può essere paragonato al “follow-through” dove, colpita la palla, il tennista perfeziona il colpo con un movimento largo e leggero, oppure al completamento della traiettoria ad arco compiuta da una mazza da golf dopo il colpo, mentre il golfista ruota sul piede d’appoggio.
Anche la tecnica con cui Ishi tendeva la corda e scoccava la freccia aveva una curiosa particolarità: era diversa da tutte le altre tecniche di tiro, e a tutt’oggi rimane unica nella letteratura specialistica. Si trattava apparentemente di una variante yahi, o meglio yana, della tecnica di tiro mongolica o asiatica, una delle cinque grandi tecniche conosciute, ma che non era mai stata segnalata tra gli Indiani d’America. La tecnica mongolica si usa generalmente con l’arco composito e presuppone l’uso di un anello per il pollice; infatti è il pollice piegato che tende la corda, e le altre dita servono solo a tenere e guidare la freccia. Ishi non usava anello né altra protezione per il pollice, e il suo arco non era composito ma semplice.
Dopo una prolungata esercitazione al tiro al bersaglio, il pollice si gonfiava e gli faceva male, ma questo non accadeva mai durante la caccia. Ishi tendeva l’arco con il pollice destro piegato come nella classica tecnica mongolica; la variazione yana stava nella posizione di un dito: la punta del medio veniva appoggiata contro l’unghia del pollice in modo da rafforzarne la presa.
A questo punto si pone il problema del perché gli Yana usassero il loro arco semplice con una tecnica diversa dagli altri arcieri e che, caso unico in America, era una variante della tecnica mongolica. Non conosciamo la risposta, possiamo solo ipotizzare che lasciando l’Asia nel corso di una lunga serie di migrazioni ormai dimenticate, gli antenati di Ishi portarono con sé l’arco semplice che avevano imparato a tendere con il pollice, in un’epoca in cui l’arco composito e l’anello per la protezione del pollice non erano ancora stati inventati. Questa ricostruzione storica ci riporta alla preistoria, e presuppone una lingua di terra tra l’Asia e l’America. E’ soltanto un’ipotesi e nulla più, ma conferma quello che già sappiamo degli Yana e che anche una analisi della lingua di Ishi lascia intendere: questo popolo aveva delle radici molto antiche.


* Theodora Kroeber è la moglie del celebre antropologo statunitense Alfred, autore fra le altre opere del Manuale degli indiani di California (1925). Quando Ishi venne affidato ad Alfred Kroeber e a T. Waterman, del Museo di Antropologia dell’Università di California, ella si trovò a seguirne e conoscerne da vicino, attraverso il racconto del marito, la storia. Questo libro, per la cui stesura sono stati ampiamente utilizzati documenti e fonti in possesso dell’Università, assolve nelle intenzioni dell’autrice e dei membri del dipartimento di antropologia che l’incoraggiarono a sciverlo, al compito di fissare la memoria di una vita grande e tragica.